Gola per Gesù Maestro

2017-2018





Alcuni testi scritturistici

Gen 3,6: l’atto del mangiare (vedi sopra)

Poi la bibbia ci attesta alcuni peccati associati all’atto del mangiare.





C’è da dire che il mangiare riveste anche tutto un aspetto di grande positività:



A) sul monte avviene dunque una nuova rivelazione, analoga a quella che aveva avuto luogo sul sinai.

B) in secondo luogo «eliminerà la morte per sempre» (v. 8a). Secondo la genesi la morte era stata la prima conseguenza del peccato di adamo (cfr. Gen 3,19). Non si tratta però semplicemente della morte fisica, ma della lontananza da dio che la morte fisica simboleggia e consacra. Nel banchetto sarà assicurata la vita in quanto comunione con dio, senza precisazioni circa la morte fisica.

C) «il signore dio asciugherà le lacrime su ogni volto» (v. 8b). Anche la sofferenza, di qualunque tipo essa sia, fa parte del triste connubio tra peccato e morte.













3. La dimensione antropologica del mangiare

Riflettiamo sull’ambito del mangiare e del ricevere nutrimento.


Il mangiare è la prima cosa che l’uomo appena nato è chiamato a fare (oltre naturalmente al respirare). Il neonato cerca il latte materno. Questo è un gesto che sottintende una grande verità: l’uomo senza il cibo non riesce a vivere. Tutto ciò lo rimanda al fatto che non è un essere autonomo o autosufficiente. Per vivere ha bisogno di qualcosa di altro rispetto a se stesso.


Nella Bibbia troviamo un importantissimo episodio nel libro dell’Esodo: si tratta dei 40 anni che il popolo trascorre nel deserto in cui Dio gli fa sperimentare la fame! Non per masochismo spirituale ma soprattutto per fargli capire che la vita è un dono. Che la realtà del creato è fatta per alimentare la creatura.


In Genesi il cibo vegetale dice di un alimentazione che non necessita di uccisione di altra vita. È comunque sempre una modalità per mettere in evidenza che la vita è un dono che viene dal di fuori di te stesso.


L’esperienza del mangiare consente anche di rivelare che tipo di relazione si pone in atto nei confronti del creato. La domanda che viene sottintesa potrebbe essere la seguente: “come ricevi la realtà? Come accogli la realtà? La fagociti? La racchiudi? La rifiuti? La gusti lentamente per assaporarne i sapori o la butti giù come dell’acqua nel lavandino?


Il mangiare mette in relazione l’atto con la bocca: e si ricordi che con la bocca non solo si mangia, ma si beve, si fuma, si bacia, si parla!


Il mangiare dunque – oltre al ricordare la tua non autosufficienza, cioè il tuo essere creatura – è rivelativo anche della dimensione dell’amore, dell’amicizia. Il mangiare è rendersi conto che è vita data per te. Spesso il mangiare è anche uccidere: uccidere un animale perché tu possa vivere! C’è qualcuno che muore per te! (qui si intravede tutta la dimensione della cena eucaristica del Cristo!)


L’esperienza che da’ l’imprinting sul mangiare è comunque quello della madre che prepara il cibo per il bambino, per la famiglia. Sia che allatti, sia che prepari – impiegando spesso anche parecchio tempo – ai fornelli, il gesto della mamma è quello di spendere tempo, cura, dedizione per chi mangerà a pranzo o a cena. Il piatto da consumarsi diventa il ricettacolo di tutto l’amore e la cura che si è spesi per prepararlo! Fare da mangiare diventa espressione dell’amore della mamma. Il mangiare diventa in questo caso una relazione di dono!


Se pensiamo spesso a come mangiamo noi oggi … ci ritroviamo normalmente a non sapere chi ci prepara da mangiare in mensa o al bar … forse un estraneo! Addirittura una società di catering. La tradizione di quando eravamo piccoli oggi si è interrotta: nei ristoranti si paga per una prestazione che normalmente era il frutto di un gesto di amore.

Oggi il mangiare spesso è semplicemente un esperienza che alimenta il corpo ma non lo spirito, non la relazione. Così quest’atto è ridotto a prestazione e non più ad atto di amore.


Proprio per questa ragione il cibo diventa spesso una compensazione: un riempire un vuoto del nostro animo. Il mangiare diventa cioè da luogo di relazione che colma di amore la nostra esistenza a luogo di solitudine: un vuoto che deve essere riempito per non sentirsi vuoti o soli!

Diventa paura del futuro, paura di morire: allora accumulo, ingoio e fagocito; mi riempio di tutto in modo sregolato. Il cibo diventa un assoluto … è tutta la mia vita.

Oppure può diventare rifiuto di una relazione: al centro e dentro di me c’è solo il mio io. Non c’è posto per nessuna altra realtà, ne’ persona, ne’ Dio. Io e solo io!


Il mangiare può essere rivelativo di una perversione: ad esempio si può vedere il mito di greco di Saturno o di Cronos. La guarigione della relazione col mangiare si compie vivendo ciò che il Signore ha sempre vissuto nella sua vita: mangiare con le persone amate, condividere il cibo, il tempo, cioè la vita! Molti sono i racconti in cui Gesù viene descritto pranzo o a cena: la vocazione di Matteo, l’incontro con Zaccheo, la donna Siro-fenicia; l’eucarestia con i discepoli, le nozze di Cana … addirittura nella Eucarestia non è Dio (cronos) che ti mangia, ma è Dio stesso che si lascia mangiare! Questa è la vera guarigione del mangiare: mangiare e ringraziare (eucaristeo) che è molto diverso dalla bramosia del mangiare!



3.1 La madre di tutte le passioni: la gola

Questa passione, designata da Evagrio con il termine gastrimarghía (lett.: «follia, delirio del ventre») e conosciuta dalla tradizione occidentale come «gola», è significativamente la prima della lista: per i padri «l’ingordigia è madre dì tutte le passioni»1.

Possiamo chiederci: perché dedicare tanta attenzione all’atto del nutrirsi, che costituisce una necessità vitale dell’uomo? La riflessione della spiritualità cristiana non dimentica che il peccato di Adamo ed Eva nel loro entrare in relazione con un alimento, il frutto dell’albero, e avvenuto proprio nell’atto di mangiare (cf. Gen 3,6). E il loro non è che il primo di una lunga serie di peccati di voracità attestati dalla Bibbia: Noè sperimenta gli effetti inebrianti del vino, fino a mostrare la nudità ai figli (cf. Gen 9,21); Lot si ubriaca e ha rapporti incestuosi con le figlie (cf. Gen 19,30-38); Esaù cede la primogenitura a Giacobbe per un piatto di lenticchie (cf. Gen 25,29-34); il popolo di Israele nel deserto pecca per la voracità di cibo, desiderando tornare alla schiavitù d’Egitto pur di mangiare cibo in abbondanza e varietà (cf. Es 16,2-3; Nm 11,4-6).


Se dalla Scrittura passiamo alla nostra esperienza, possiamo dire che ogni patologia umana si innesta sul livello del bisogno primario per eccellenza, quello del nutrimento, della fruizione e del piacere: occorre mangiare per vivere, e occorre anche godere. Va però subito chiarito che l’ingordigia non indica il piacere nel mangiare – scrive del resto Cassiano: «Il piacere che si posa naturalmente sul mangiare non è un male, ... non si può dire che sia cattivo»2 – né tanto meno la capacità di apprezzare e gustare la buona qualità dei cibi; queste attitudini non vanno condannate, ma sono anzi da esaltare in quanto espressione di gioia per la bontà delle creature donate da Dio e trasformate da quella raffinata forma culturale e da quel linguaggio dell’amore che è la cucina. No, l’ingordigia è un atteggiamento di smoderatezza e di voracità in rapporto al cibo, è una brama sfrenata e compulsiva: insomma, una «brama di cibo non ordinata»3, un’autosoddisfazione dell’io solitario.



Certamente l’ingordigia si riferisce alla quantità del cibo, ma in realtà gli eccessi non sono solo quantitativi. I padri del deserto associano infatti alla gastrimarghía anche la laimarghía, la «follia della gola», ossia la golosità, l’eccesso nella ricerca della qualità del cibo. Cosi scrive Doroteo di Gaza:


A volte si è tentati sulla qualità del cibo: ad esempio c’è chi non mangia molto, ma brama cibi raffinatissimi. Costui quando mangia un cibo che gli dà piacere, è talmente dominato dal piacere, che lo tiene a lungo in bocca, masticandolo a lungo e senza avere il coraggio di ingoiarlo per il piacere che ne prova. Questa è golosità, cioè laimarghía. Un altro invece è tentato sulla quantità del cibo: non cerca cibi buoni ... desidera solo mangiare; di qualsiasi cibo non desidera altro che riempirsi il ventre. Questa è voracità, cioè gastrimarghía4.



Accanto a questi eccessi, vi è anche quello che consiste nel non rispettare i tempi per mangiare, che riguarda cioè il modo di mangiare. Si tratta dunque di vari comportamenti smodati, così ben sintetizzati da Gregorio Magno:



La voracità ci tenta in cinque modi: a volte anticipa il tempo del bisogno; altre volte non anticipa il tempo, ma chiede cibi più raffinati; altre volte pretende che i cibi siano sempre preparati con una cura meticolosa; altre volte si adatta alla qualità e al tempo dell’alimentazione, ma eccede nella quantità. Alcune volte poi non desidera affatto cibi raffinati, ma pecca più gravemente per eccessiva voracità5.


Si, mangiare è una funzione essenziale, ma rischia sempre di ridursi a un’animalità irriflessa, non ragionata.


3.2 Un vizio di consumo

Ora, se è vero che noi oggi diamo poca importanza all’ingordigia, al punto che non la consideriamo più come un peccato, è altrettanto vero che, mai come oggi, sperimentiamo quanto essa sia dannosa per la nostra salute. E’ paradossale eppure reale: siamo maggiormente disposti ad accettare i disagi provenienti dagli abusi nel nostro rapporto con il cibo che non quelli causati da un suo retto uso, cioè le moderate rinunce e il giusto rapporto con il cibo che ci consentirebbero di intrattenere un rapporto equilibrato con il nostro corpo.


Come non ricordare che la nostra società, assolutamente mal disposta a comprendere queste «lotte spirituali», in realtà reintroduce quasi le stesse discipline raccomandate dalla tradizione cristiana – cioè esercizi, digiuni, diete –, per ragioni di salute e di estetica6? Nell’attuale contesto culturale della «società dei consumi», dove il cibo non manca mai, la gastrimarghia si declina appunto come un vizio di consumo. Si tende a ingurgitare cibo alla stregua di carburante in grado di assicurare il funzionamento della nostra macchina-corpo, e lo si fa evitando di riconoscere come patologico il nostro modo di mangiare, giustificato sbrigativamente con la mancanza di tempo o i ritmi produttivi.


Qual è il risultato? Quello già espresso con grande sapienza in alcuni salmi: «l’uomo nel benessere non comprende» (Sal 49,21), «gli uomini sono ottusi nella loro sufficienza» (Sal 17,10; lett.: «sono chiusi nel loro grasso»). L’ingordigia ci rende pesanti in senso proprio e in senso figurato, causa insonnia e a volte provoca addirittura malesseri (cf. Pr 23,29-35; Sir 31,20-25), ma soprattutto provoca un intontimento, un’ebetudine dell’intelligenza, un torpore che spegne la vigilanza. Significativamente Gesù ha avvertito: «Vigilate, in modo che i vostri cuori non si appesantiscano in ubriachezze» (cf. Lc 21,34). D’altra parte essa può anche provocare sfrenatezza, eccitazione, può toglierei freni inibitori alla lingua, ai gesti, allo stare in mezzo agli altri: secondo Paolo, è celebrato da quelli che «hanno il ventre come proprio dio» (cf. Fil 3,19).



Grazie all’apporto delle scienze umane noi oggi siamo in grado di rileggere l’intuizione patristica che ravvisa nell’ingordigia la «porta di tutte le passioni»7. La voracità appare infatti come la porta dei vizi: non è forse vero che dall’eccesso di assunzione di vino e cibo nascono il multiloquio, la scurrilità, le beffe, l’allegria sconcia, la sfrenatezza sessuale, la perdita di vigilanza, l’intontimento spirituale, e a volte persino l’aggressività, la violenza? Non è forse a tavola, luogo destinato alla condivisione, allo scambio della parola, all’effusione dell’affetto, che un eccesso di cibo e bevande provoca liti e atteggiamenti violenti? Sì, la tavola è luogo di epifania anche a causa di ciò e di come si beve e si mangia: epifania della comunione, dell’amore, oppure epifania dell’aggressività...


3.3 Un atto primordiale

L’atto del mangiare, inoltre, non ha a che fare semplicemente con il nutrimento fisico, ma più in profondità appartiene al registro del desiderio, riveste importanti connotazioni affettive e simboliche: il mangiare è atto primordiale e riconoscimento iniziale del mondo, come testimonia l’esperienza originaria del neonato che, perduto il paradiso del grembo materno, cerca il piacere con la sua bocca. Così comincia a relazionarsi con il mondo esterno succhiando il seno materno per cibarsi, e poi succhiando tutto ciò che può portare alla bocca. Il neonato cerca il seno materno con desiderio prepotente e quasi insaziabile, e, animato da questa pulsione, non sa distinguere tra la matrice e la persona della madre: vorrebbe divorare questa matrice, fonte e termine di ogni suo desiderio e bisogno, vorrebbe averla tutta per sé. E noi oggi siamo avvertiti sul fatto che questa esperienza iniziale di desiderio e di conoscenza, così come eventuali esperienze traumatiche vissute dal bambino nelle sue relazioni con la madre, soprattutto nella fase dell’allattamento e dello svezzamento, rischiano di causare fissazioni o regressioni a comportamenti infantili, allo «stadio orale».


Proprio quelle frustrazioni orali che segnano in profondità il nostro inconscio possono generare fami divoranti o altrettanto divoranti astensioni dal cibo. É nel rapporto con il cibo, infatti, che si cercano soluzioni al proprio malessere, con conseguenze mortifere: bisogno di ingurgitare grandi quantità di cibo o di bevande, fino alla bulimia, per soddisfare un’irrefrenabile pulsione orale; oppure, al contrario, rifiuto di ingerire il nutrimento necessario, fino all’anoressia.

Prima di essere indice di un malessere spirituale, l’ingordigia si manifesta pertanto come una furiosa perversione del desiderio, che può assumere il volto della psicosi e della nevrosi: che cosa sono infatti bulimia e anoressia se non indici di turbamenti affettivi che si ripercuotono sull’alimentazione? E così il cibo finisce per sostituirsi all’amore, e il rapporto con esso diventa un mezzo per occultare la sofferenza: l’amore è irraggiungibile, mentre il cibo è a portata di mano... Con la bocca noi mangiamo, parliamo e anche baciamo: le sfere della comunicazione, dell’affettività, della sessualità sono implicate nell’oralità e sono simbolicamente presenti nell’atto dell’assunzione del cibo.

Tuttavia nella voracità avviene lo stravolgimento del mezzo in fine: il cibo non è più inteso come uno strumento per vivere, per condividere e per festeggiare, ma come una sorta di fine in se stesso, come piacere teso alla propria soddisfazione fino all’eccesso! Ecco perché il percorso di crescita umana e spirituale richiede necessariamente la capacità di ordinare tutti i nostri appetiti, a partire da quello fondamentale del cibo. Non si dimentichi inoltre che sta nello spazio dell’ingordigia anche il cibo che con voracità acquistiamo oltre i nostri reali bisogni e che poi buttiamo via.



3.4 La lotta contro l’ingordigia

É innegabile che la lotta contro l’ingordigia comporta un’enorme fatica: basti pensare all’attuale, massiccio ricorso alle diete o ai farmaci per dimagrire, che si dimostrano quasi sempre inutili e, di conseguenza, accrescono la frustrazione di chi vi si affida. Eppure è proprio a partire dal nostro rapporto con il cibo che si decide la nostra libertà, è questo il terreno privilegiato per conoscere da cosa siamo abitati.

Avverte con grande lucidità Cassiano: «Dobbiamo innanzitutto dare prova della nostra condizione di uomini liberi attraverso la sottomissione del nostro corpo, perché “ciascuno è schiavo di ciò che l’ha vinto” (2Pt 2,19)»8, e noi conosciamo per esperienza la verità di queste parole: chi non sa praticare una rinuncia elementare a una piccola quantità di cibo, non potrà mai disciplinare i bisogni prepotenti che insorgono nel proprio cuore, assumendo il volto di bestie fameliche.


Va intesa in quest’ottica la grande attenzione mostrata dai padri monastici nei confronti del rapporto con l’alimentazione, la loro insistenza sulla misura del cibo da assumere9: non si tratta di norme legalistiche, ma di un esercizio di disciplina della propria oralità, in vista di un ascesi del bisogno e di un’educazione del desiderio.


L’ingordigia è causata da un desiderio smodato e quindi va combattuta – lo ripeto – attraverso l’integrazione del desiderio e la rinuncia ai suoi eccessi. L’uomo di oggi deve reimparare ad ascoltare il proprio corpo e non solo il richiamo del piacere, che tende per sua natura alla dismisura, all’eccesso. Raccomanda Cassiano: «Si prenda il cibo secondo il bisogno della salute e non secondo il desiderio»10. Non a caso nella tradizione ebraica e cristiana alla tavola, al mangiare è strettamente connessa la preghiera: innanzitutto quale presa di distanza dall’aggressività e riconoscimento che il cibo è dono di Dio e non conquista violenta; quindi quale ringraziamento perché Dio ci concede il pane quotidiano; infine quale memoria della comunione, della condivisione che il cibo deve avere in quanto dono destinato a tutti gli uomini, non ad alcuni o a pochi!


Si comprende in questa scia anche lo strumento per eccellenza proposto dalla tradizione cristiana per lottare contro la gastrimarghía: il digiuno moderato e intelligente, inscritto nel ritmo dei giorni della settimana o nel corso dell’anno, in particolare durante il tempo della quaresima. La pratica del digiuno non significa disprezzo del cibo, né va intesa come una penitenza meritoria; «vano è il digiuno senza carità, ed è meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli»11. Al contrario, il digiuno è una forma di rispetto originata da una sana presa di distanza dal cibo stesso, è una disciplina del desiderio per discernere che cosa, oltre il pane, è veramente necessario per vivere.

Ecco perché digiunare con coscienza di causa – e sempre nel segreto, senza ostentazione (cf, Mt 6,6) – può condurre a porsi le domande essenziali: Perché mangio? Cosa mangio? Come mangio? E inoltre: quali, sono i miei desideri più profondi? Astenersi consapevolmente dal cibo può anche indurre a chiedersi se nelle relazioni con gli altri il cibo è strumento di condivisione e di incontro, oppure è una via per soddisfare il proprio piacere contro e senza di loro.



3.5 Imparare a mangiare

E in tal modo potremo giungere a comprendere che imparare a mangiare significa imparare a farlo insieme agli altri: la tavola è infatti il luogo per eccellenza in cui gli uomini da sempre stringono amicizia e creano cultura, a patto che il cibo non sia semplicemente consumato, ma sia assunto umanamente e crei comunione tra i commensali. A tavola non si condivide solo il cibo, ma si scambiano parole per nutrire le relazioni, ovvero ciò che dà senso alla vita sostentata dal cibo. È il mangiare insieme che ha implicato la creazione del linguaggio; e siccome questo atto è legato all’oralità e al desiderio, esso investe la sfera affettiva ed emozionale dell’uomo: è dunque un simbolo antropologico decisivo, che coglie l’uomo nella sua profondità e lo definisce nel suo legame con la terra, con il lavoro, con la famiglia, con la società12.

Mangiando, noi assumiamo il mondo in noi e lo trasformiamo: noi siamo ciò che mangiamo! Certo, occorre avere chiara consapevolezza del nostro consumare il cibo: come avvertiva Jean Anthelme Brillat-Savarin, «gli animali si nutrono, l’uomo mangia, solo l’uomo sapiente sa mangiare»13.

Non è infine casuale che l’eucaristia, fonte e culmine della vita della comunità cristiana, sia stata collocata da Gesù all’interno di una cena e accompagnata dalle parole: «Prendete e mangiate ... prendete e bevete» (cf. Me 14,22-25 e par.).

Non è facile apprendere l’arte umana del mangiare e del bere; ma è proprio a partire da tale consapevolezza che Gesù ha scelto queste due realtà come cifra della nuova alleanza. L’eucaristia dovrebbe dunque insegnarci anche questo: ci cibiamo del corpo e del sangue del Signore immettendoci in quella logica di dono e di comunione che sconfessa ogni voracità. E tutto avviene nel rendimento di grazie, nella confessione che ogni cosa proviene da Dio: il cibo è buono, «ogni alimento è puro» (cf. Mc 7,19), ma occorre nutrirsene ringraziando Dio e condividendolo con chi è a tavola con noi. Davvero il rapporto con il cibo è l’ambito elementare in cui ogni cristiano è chiamato alla lotta essenziale, quella che fa da filo conduttore a tutto il nostro percorso: passare dalla logica del consumo a quella della comunione, in modo che mangiare e bere siano azioni che riconoscono la gloria di Dio (cf. 1Cor 10,31)14. Non si dimentichi: l’eucaristia possiede il più alto ed efficace magistero nel nostro rapporto con il cibo!

Nel rapporto con il cibo, sempre rivelativo del rapporto che uno ha con se stesso e con gli altri, occorrono dunque: sobrietà quale giusta misura; temperanza quale limite intelligente; riconoscenza, perché il cibo è sempre qualcosa per cui occorre dire grazie ad altri, all’altro; giustizia, perché il cibo è sempre da condividere con chi non ne ha.



1 Basilio di Cesarea, Omelie sul digiuno 1.

2 Cassiano, Conferenze XXI,16.

3 Tommaso d’Aquino, Somma teologica II-II, q. 148, a. 1.

4 Doroteo di Gaza, Insegnamenti XV, 361.

5 Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe XXX,60.

6 U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, p. 50.

7 Giovanni Climaco, La Scala XIV,32.

8 Cassiano, Istituzioni cenobitiche V,13.

9 La Regola di Benedetto dedica un intero capitolo, il XXXIX, alla «misura del cibo».

10 Cassiano, Istituzioni cenobitiche V,7.

11 Detti dei padri del deserto, Collezione alfabetica, Iperechio 4.

12 L’essere umano è l’unico animale che cuoce il cibo e lo consuma insieme ai propri simili e non contro o a scapito di essi.

13 J. A. Brillat-Savarin, Fisiologia del gusto, BIT, Milano 1996, p. 23.

14 A questo proposito rimando anche al bellissimo film II pranzo di Babette (regia di Gabriel Axel, Danimarca 1987), ispirato all’omonimo racconto di Karen Blixen.

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